Letterature – Festival Internazionale di Roma porta in Italia gli scrittori più amati di tutto il mondo. Dopo aver accolto David Grossman, Luis Sepúlveda, Dacia Maraini e John Grisham, ecco le sorprese di quest’edizione. Letterature, il Festival Internazionale di Roma…
Uno spaccato delle donne iraniane, il racconto della loro innegabile forza, i diritti non riconosciuti, le lotte. La contraddizione del loro mondo, tra le regole con cui sono costrette a confrontarsi e il ruolo di punto cardine nella società. Il rapporto con la cultura e le loro battaglie attraverso la scrittura.
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Copyright foto: Facebook @My stealthy freedom
La cultura delle donne iraniane
L’immagine che spesso abbiamo della donna iraniana è quella trasmessa dai mass-media: una personalità sottomessa e vittima dell’autorità religiosa. Ma è proprio così? A dirla tutta le donne iraniane, anche se discriminate dalla legge, hanno da sempre avuto la capacità di conquistare un ruolo centrale nella società. A parlare sono i numeri: già dalla scuola elementare le bambine sono più numerose dei bimbi e all’università le studentesse costituiscono una presenza più massiccia rispetto agli studenti, anche in facoltà considerate tipicamente maschili, come ingegneria ed informatica.
Aziende multinazionali affidano loro sempre più spesso ruoli di responsabilità o sono imprenditrici di se stesse, anche in settori come quello petrolifero. Non da meno le cariche politiche che diverse donne ricoprono, una conquista impensabile fino a non molti anni fa. Se è vero, poi, che l’acutezza è femmina, nel caso specifico emerge prepotentemente nella capacità di sfruttare positivamente eventi negativi.
Un esempio su tutti è l’imposizione della separazione dei sessi nel sistema sanitario e scolastico: questa misura discriminatoria ha in realtà consentito a molte donne di trovare lavoro come medico o insegnante, grazie soprattutto all’istruzione gratuita. Anche un evento drammatico come la guerra Iran-Iraq ha avuto paradossalmente risvolti positivi, perché con gli uomini al fronte, il numero delle donne introdotte nel mercato del lavoro è aumentato in maniera esponenziale, dando loro una stabilità lavorativa e professionale.
Di contro, però, c’è l’imposizione del velo. L’intolleranza verso una regola così rigida è sempre più forte, soprattutto nella capitale Teheran: qui spesso, il tradizionale e castigato hijab, viene sostituito da foulard colorati. Per chi non lo sapesse la religione in Iran impone alle donne di coprire i capelli, giustificando l’autoritario provvedimento con l’incapacità dell’uomo di far funzionare il proprio freno inibitorio di fronte alla visione di una chioma femminile scoperta. La questione del velo è, quindi, decisamente complessa e può essere misurata sui piatti di una bilancia per capire da che parte pende il buono: ad oggi c’è una certa tolleranza, ma con tutti i limiti del caso (non si può sottovalutare la polizia religiosa).
Tra i più audaci tentativi di ribellione in tal senso, la pagina Facebook (My stealthy freedom) della giornalista Masih Alinejad, costretta a vivere in esilio tra New York e Parigi e che invita le donne ad essere libere di scegliere se indossare il velo oppure no. Tra foto di chiome libere al vento di chi la segue assiduamente spiccano anche quelle di teste rasate, aprendo la strada ad un nuovo dubbio politico- religioso: chi ha i capelli cortissimi è obbligata a portare comunque il velo? Scrive una donna su My stealthy freedom:
Ho venduto i miei capelli per aiutare questi adorabili piccoli angeli colpiti dal cancro. Una volta in strada, mi sono detta: niente capelli, niente polizia religiosa! Coloro che mi dicono ogni giorno di velarmi i capelli, non hanno più alcuna buona ragione di dirmi di coprirmi o di arrestarmi, per il momento.
Insomma, essere donna in Iran è ancora una battaglia che si combatte tutti i giorni, i divieti sono di ogni tipo. Un altro esempio? L’uso della bicicletta. La domanda per noi sorge spontanea: ma davvero l’universo femminile iraniano deve lottare anche per l’utilizzo della bici? Ebbene sì, anche in questo caso esiste un curioso divieto. Per gli esponenti religiosi iraniani una donna che va in bici costituisce una minaccia per la morale, una visione tanto maschilista da trasformarsi in pane per i denti di alcune attiviste, che per tutta risposta hanno deciso di incoraggiare un movimento contrario e ribelle.
In Iran in realtà, non esiste alcuna legge che vieti l’uso femminile della bici, ma quando nel luglio del 2016 alcune di loro che provarono a partecipare ad un evento di ciclismo nella città di Marivan, furono arrestate e liberate solo dopo aver firmato una attestazione in cui dichiaravano che non avrebbero più utilizzato la bicicletta, l’opinione pubblica si indignò tanto che la massima autorità religiosa iraniana fu costretta ad emanare una fatwā (dispensa), in cui si affermava che le donne sono, sì, libere di andare in bici, ma non in pubblico. Un paradossale provvedimento che scatenò il putiferio, soprattutto sui social, dove moltissime donne cominciarono a postare le proprie foto in bicicletta.
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‘A livella di Totò: un grottesco cimitero, due personaggi rigorosamente morti in contrapposizione. Una poesia, in cui, la voluta leggerezza che la caratterizza, cela profondi radici. Un modo singolare di affrontare la polemica anti-nobiliare e dare una visione della morte in chiave ironica.
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‘A livella di Totò
‘A livella è una poesia in italiano e napoletano scritta da Antonio de Curtis nel 1964. Di seguito il testo originale della poesia:
Ogn’anno, il due novembre, c’è l’usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno ll’adda fà chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero.
Ogn’anno, puntualmente, in questo giorno, di questa triste e mesta ricorrenza, anch’io ci vado, e con dei fiori adorno il loculo marmoreo ‘e zi’ Vicenza.
St’anno m’é capitato ‘navventura… dopo di aver compiuto il triste omaggio (Madonna!) si ce penzo, che paura! ma po’ facette un’anema e curaggio.
‘O fatto è chisto, statemi a sentire: s’avvicinava ll’ora d’à chiusura: io, tomo tomo, stavo per uscire buttando un occhio a qualche sepoltura.
“Qui dorme in pace il nobile marchese signore di Rovigo e di Belluno ardimentoso eroe di mille imprese morto l’11 maggio del ’31”. ‘O stemma cu ‘a curona ‘ncoppa a tutto… …sotto ‘na croce fatta ‘e lampadine; tre mazze ‘e rose cu ‘na lista ‘e lutto: cannele, cannelotte e sei lumine.
Proprio azzeccata ‘a tomba ‘e ‘stu signore nce stava ‘n ‘ata tomba piccerella, abbandunata, senza manco un fiore; pe’ segno, sulamente ‘na crucella.
E ncoppa ‘a croce appena se liggeva: “Esposito Gennaro – netturbino”: guardannola, che ppena me faceva stu muorto senza manco nu lumino!
Questa è la vita! ‘ncapo a me penzavo… chi ha avuto tanto e chi nun ave niente! Stu povero maronna s’aspettava ca pur all’atu munno era pezzente?
Mentre fantasticavo ‘stu penziero, s’era ggià fatta quase mezanotte, e i ‘rimanette ‘nchiuso priggiuniero, muorto ‘e paura… nnanze ‘e cannelotte.
Tutto a ‘nu tratto, che veco ‘a luntano? Ddoje ombre avvicenarse ‘a parte mia… Penzaje: stu fatto a me mme pare strano… Stongo scetato… dormo, o è fantasia?
Ate che fantasia; era ‘o Marchese: c’o’ tubbo, ‘a caramella e c’o’ pastrano; chill’ato apriesso a isso un brutto arnese; tutto fetente e cu ‘na scopa mmano.
E chillo certamente è don Gennaro… ‘omuorto puveriello…’o scupatore. ‘Int ‘a stu fatto i’ nun ce veco chiaro: so’ muorte e se ritirano a chest’ora?
Putevano sta’ ‘a me quase ‘nu palmo, quanno ‘o Marchese se fermaje ‘e botto, s’avota e tomo tomo… calmo calmo, dicette a don Gennaro: “Giovanotto!
Da Voi vorrei saper, vile carogna, con quale ardire e come avete osato di farvi seppellir, per mia vergogna, accanto a me che sono blasonato!
La casta è casta e va, sì, rispettata, ma Voi perdeste il senso e la misura; la Vostra salma andava, sì, inumata; ma seppellita nella spazzatura!
Ancora oltre sopportar non posso la Vostra vicinanza puzzolente, fa d’uopo, quindi, che cerchiate un fosso tra i vostri pari, tra la vostra gente”.
“Signor Marchese, nun è colpa mia, i’nun v’avesse fatto chistu tuorto; mia moglie è stata a ffa’ sta fesseria, i’ che putevo fa’ si ero muorto?
Si fosse vivo ve farrei cuntento, pigliasse ‘a casciulella cu ‘e qquatt’osse e proprio mo, obbj’… ‘nd’a stu mumento mme ne trasesse dinto a n’ata fossa”.
“E cosa aspetti, oh turpe malcreato, che l’ira mia raggiunga l’eccedenza? Se io non fossi stato un titolato avrei già dato piglio alla violenza!”
“Famme vedé… piglia ‘sta violenza… ‘A verità, Marché, mme so’ scucciato ‘e te senti; e si perdo ‘a pacienza, mme scordo ca so’ muorto e so mazzate!…
Ma chi te cride d’essere… nu ddio? Ccà dinto, ‘o vvuo capi, ca simmo eguale?… …Muorto si’ tu e muorto so’ pur’io; ognuno comme a ‘na’ato è tale e qquale”.
“Lurido porco!… Come ti permetti paragonarti a me ch’ebbi natali illustri, nobilissimi e perfetti, da fare invidia a Principi Reali?”.
“Tu qua’ Natale… Pasca e Ppifania!!! T”o vvuo’ mettere ‘ncapo… ‘int’a cervella che staje malato ancora È fantasia?… ‘A morte ‘o ssaje ched”e?… è una livella.
‘Nu rre, ‘nu maggistrato, ‘nu grand’ommo, trasenno stu canciello ha fatt’o punto c’ha perzo tutto, ‘a vita e pure ‘o nomme: tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?
Perciò, stamme a ssenti… nun fa’ ‘o restivo, suppuorteme vicino – che te ‘mporta? Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie… appartenimmo â morte!”.
‘A livella di Totò: Traduzione
Ecco la sua traduzione in italiano:
“Ogni anno, il 2 Novembre, si usa andare al cimitero per i defunti. Ognuno deve avere questa gentilezza; ognuno deve avere questo pensiero.
Ogni anno, puntualmente, in questo giorno di questa triste e mesta ricorrenza, anche io ci vado e con dei fiori adorno il loculo di marmo di zia Vincenza.
Quest’anno mi è capitata un’avventura..dopo aver compiuto il mio triste omaggio. (Madonna) se ci penso che paura! ma poi mi diedi anima e coraggio.
Il fatto è questo, statemi a sentire: si avvicinava l’ora di chiusura: io piano piano, stavo per uscire buttando un occhio a qualche sepoltura.
Qui dorme in pace il nobile marchese signore di Rovigo e di Belluno ardimentoso eroe di mille imprese morto l’11 Maggio del ’31
Lo stemma con la corona sopra a tutto..sotto una croce fatta di lampadine; tre i mazzi di rose con una la scritta del lutto: candele, lanterne e sei lumini.
Proprio accanto alla tomba di questo signore, c’era un’altra tomba, piccolina, abbandonata, senza nemmeno un fiore; per segno, solamente una piccola croce.
E sopra la croce appena si leggeva: ” Esposito Gennaro – netturbino”: guardandola, che pena mi faceva questo morto senza nemmeno un lumino!
Questa è la vita! nella mia testa pensavo..chi ha avuto tanto e chi non ha niente! Questo povero madonna (uomo) si aspettava che anche all’atro mondo era pezzente?
Mentre fantasticavo su questo pensiero, si era fatta quasi mezzanotte, e rimasi chiuso prigioniero morto di paura..davanti alle candele.
Tutto a un tratto, cosa vedo da lontano? Due ombre avvicinarsi dalla mia parte. Pensai: questo fatto mi sembra strano…Sono sveglio..dormo, o è fantasia?
Altro che fantasia; Era il Marchese: con la tuba, la caramella e il pastrano; quell’altro dietro a lui un brutto arnese, tutto puzzolente e con una scopa in mano.
E quello certamente è don Gennaro…il morto poverello..il netturbino. In questo fatto io non ci vedo chiaro: sono morti e tornano a quest’ora?
Potevano starmi a quasi un palmo, quando il Marchese si ferma di botto e si gira piano piano..calmo calmo, disse a don Gennaro. ” Giovanotto!
Da voi vorrei sapere, vile carogna, con quale ardire e come avete osato di farvi sepellire, per la mia vergogna, accanto a me che sono nobile!
La casta è casta e va rispettata, ma voi perdeste il senso e la misura; la Vostra salma andava sì tumulata; ma seppellita nella spazzatura!
Non posso sopportare ancora oltre la vostra vicinanza puzzolente, è d’uopo quindi, che cerchiate una fossa tra i vostri pari, tra la vostra gente”.
Signor Marchese non è colpa mia, io non vi ho fatto questo torto; è stata mia moglie a commettere questa sciocchezza, io che potevo fare se ero morto?
Se fossi vivo vi accontenterei, prenderei la cassa con dentro le quattro ossa e proprio adesso, in questo istante, entrerei dentro un’altra fossa.
E cosa aspetti sporco maleducato, che la mia ira raggiunga l’eccedenza? Se non fossi stato un titolato avrei già dato piglio alla violenza!
Fammi vedere..prendi questa violenza..La verità Marchese, mi sono stufato di ascoltarti; se perdo la pazienza mi dimentico di essere morto e sono botte!…
Ma chi ti credi di essere..un dio? Qui dentro, lo vuoi capire, che siamo uguali? Morto sei tu e morto sono anche io; ognuno come a un altro tale e quale.
“Lurido porco!..Come ti permetti di paragonarti a me, che ebbi natali illustri, nobilissimi e perfetti, da fare invidia a Principi Reali?”.
“Ma quale Natale..Pasqua ed Epifania!!! Te lo vuoi mettere in testa..nel cervello che sei ancora malato di fantasia?..La morte sai cos’è? ..è una livella.
Un re, un magistrato, un grand’uomo, passando questo cancello, ha fatto il punto che ha perso tutto, la vita e pure il nome: tu questo conto non lo hai ancora fatto?
Perciò stammi a sentire..non fare il restìo, sopportami vicino- che te ne importa? Queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri..apparteniamo alla morte!”
http://www.youtube.com/watch?V=AZ8mrzSKzQs
Il significato di ‘A livella di Totò
L’intera poesia è incentrata sul tema della morte, una morte che però non incute timore, ma è fonte di istrionismo e comicità. L’audace tentativo che l’opera mette in atto è quello di voler sdrammatizzare, consentendo al lettore di apprezzare non solo la poesia in sé, ma anche il messaggio che vuole trasmettere, utilizzando la morte per inneggiare alla vita. Il trapasso è un avvenimento doloroso e spiacevole, ma ha una qualità, quella di essere uguale per tutti.
Anche se nella vita una persona ha goduto di onori e privilegi e un altro invece ha vissuto un’esistenza, povera, fatta di difficoltà e stenti, il sonno eterno non concede benefici a nessuno. Entrambi i signori, protagonisti della poesia di Totò, hanno lo stesso spazio e sono nello stesso luogo. La morte, quindi, possiede un concetto di uguaglianza che non ha riscontri in nessuna altra situazione in vita, agendo proprio come come una livella, “livellando” ogni tipo di disuguaglianza esistente tra i vivi.
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