Quentin Tarantino ed il suo The Hateful Eight: quel qualcosa che manca, tanto da lasciare l’amaro in bocca… e no, non è il sangue!
“L’essenza della giustizia è l’assenza di passione”. In queste parole, pronunciate dal personaggio interpretato da Tim Roth in una lucida spiegazione sul ruolo del boia, può racchiudersi tutta la difficoltà di una critica credibile all’ultimo lavoro di Quentin Tarantino, uno dei registi in attività più amati dal pubblico e apprezzati dalla critica. I suoi film portano sempre grandi aspettative e un sentimento di trepidazione speciale per la loro uscita sui grandi schermi.
Di solito riesce a mettere tutti d’accordo, ma con il suo The Hateful Eight il risultato è ben diverso. In questi giorni si leggono critiche entusiaste dettate probabilmente dalla stima e l’amore verso il regista di Knoxville, ma obiettivamente questo può dirsi il suo film meno riuscito. E credeteci, a dirlo è un suo grande estimatore, quindi probabilmente a parlare è la voce di un amante ferito e anche qui la passione forse influenza la giusta obiettività di giudizio.
Venendo al film: i primi trenta minuti, che si svolgono fra le suggestive montagne innevate del Colorado, esaltate (come tutta la fotografia del film) dalla scelta di usare la pellicola 70mm, con alcune scene accompagnate dalle musiche dal maestro Ennio Morricone (la corsa dei cavalli fra la neve musicata in perfetto stile western giustifica da sola la vittoria del Golden Globe e la candidatura all’Oscar), sembra promettere allo spettatore l’ennesima perla di Tarantino. La scena, poi, però si sposta all’interno dell’emporio di Minnie, dove si resterà fino alla fine del film, e da qui la storia perde molta della sua forza.
Prima un’ora di dialoghi, che malgrado la musicalità caratteristica di tutti i film di Tarantino, con due o tre battute azzeccatissime, rallenta e appesantisce molto il film. Poi, un secondo tempo in cui l’azione tenta di riprendere il sopravvento riuscendoci solo a tratti, con il finale immerso nel rosso del sangue tanto caro al regista. Purtroppo però stavolta qualcosa non convince, le caratterizzazioni dei personaggi mancano di quel qualcosa in più che gli consenta di entrare nell’immaginario cinematografico collettivo, come hanno saputo fare in passato i vari Vincent Vega, Mr Blonde, Dottor Schultz o Beatrix Kiddo, solo per citarne alcuni.
Come spesso ama fare, Tarantino cita se stesso in diversi momenti, ma se questo stile funzionava bene anche nel suo film forse meno apprezzato Grindhouse-Death Proof, qui riesce convincente a momenti alterni. Per fare un esempio, il già citato personaggio di Tim Roth veste i panni di un inglese dallo stile elegante e il parlar forbito che ricorda il tedesco Dr Shultz, ma ne perde in un inevitabile automatico confronto con un ruolo che valse l’Oscar a Christoph Waltz. A salvare il film contribuisce tutta la qualità della troupe a disposizione del regista e la bontà degli attori, sempre di grande livello. Una menzione speciale la merita l’interpretazione di Jennifer Jason Leigh, a cui sono dedicate alcune delle inquadrature migliori del film, nel ruolo di una credibilissima criminale che prende botte per tutto il film, in ostaggio del “boia” Kurt Russell.
Insieme a lei, anche Samuel L. Jackson che si conferma uno degli attori più amati dal regista ( i due sono alla sesta collaborazione) e ne esplica le ragioni con un’altra interpretazione di livello. A completare il cast Michael Madsen (un altro che con Tarantino ha lavorato diverse volte), Channing Tatum, James Parks, Bruce Dern, Walton Goggins e Demiàn Bichir. La sceneggiatura del film è stata cambiata dopo che verso la fine del 2014 era trapelata su internet: forse questa modifica forzata al lavoro originale ha portato a quelle piccole falle che si aprono durante il racconto, portando ad un finale che dice poco e lascia ancora meno.
Il film è volutamente teatrale e ambientare più di due ore nello stesso interno è una scelta coraggiosa e difficile che però non sembra pagare. Tutti conoscerete Sei personaggi in cerca d’autore; qui sembra di assistere a “Otto personaggi in cerca di sangue”, visto che ognuno fa sanguinare qualcun’altro, in una commistione con il genere western stavolta meno riuscita del suo precedente successo Django Unchained. Il film è stato anche definito come il più politico dei suoi e molti dialoghi della prima parte lo confermano come anche alcune scene nel finale, ma questo non basta a mantenere il film su livelli adeguati.
Tarantino ha dichiarato di voler girare al massimo altre due o tre pellicole, con l’intento di comporre un una serie di opere legate tutte da un filo conduttore, filo che però qui sembra ingarbugliarsi. Infatti, nonostante The Hateful Eight meriti comunque una sufficienza piena, per la prima volta dopo aver visto un suo film si esce con un po’ di amaro in bocca, pensando che l’amato Quentin abbia perso un poco del suo smalto. Una domanda ce la siamo posta: che c’entri qualcosa la fine della storia con la sua musa Uma Thurman?
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