Recensione di The must be the place, il primo film di Paolo Sorrentino in inglese. Vincitore di ben 6 David di Donatello, vanta un protagonista di tutto rispetto: Sean Penn.

Recensione This must be the place

This must be the place travolge sin dall’inizio, avvince dalle prime parole: “il pericolo è il mio mestiere”. Incuriosisce la partenza lenta, quasi banale, la storia di una rockstar in pensione che dopo una vita di eccessi sfrenati si ritrova ricchissimo, ma annoiato, senza uno scopo. Le scene sono pulite, a tratti ci riportano allo stile di Tim Burton.

Cheyenne è una creatura strana, particolare, parla lentamente, con fatica come una persona provata dal ripetere sempre le stesse cose; fa risate stridule in situazioni in cui non c’è niente da ridere, dice cose apparentemente sciocche. Insomma è un uomo vago, leggero tanto che viene da chiedersi come abbia fatto a raggiungere il successo e una posizione di rilievo. E’ solo nel dipanarsi della storia che ogni parola assume significati profondi, ogni vocabolo è studiato per far pensare alle interpretazioni che si aprono a scenari sempre diversi.

La mia vita va.  Bene.” lo dice con una pausa, ma con nonchalance allo stesso tempo, soffiandosi via il ciuffo ribelle che gli cade sempre davanti al viso, come se con quel gesto soffiasse via anche le tensioni e le paure.  Non ha figli “perchè dai figli delle rockstar c’è sempre il rischio che venga fuori uno stilista strampalato”. Le domande personali lo irritano, per lui il tempo è tutto una teoria. Nel film si intersecano altre vite vicine al protagonista, una di queste parla della madre della sua amica che attende dalla finestra il ritorno a casa del figlio, col telefono perennemente appoggiato sulle gambe, ma è Cheyenne a ricevere una telefonata dall’ospedale.

Mio padre sta morendo di vecchiaia, una malattia che non esiste” . Quando giunge l’ora di andarlo a trovare sceglie la strada più lunga perché lui ha una sciocca paura degli aerei e di morirci a bordo. Piange, non si diverte, è triste in mezzo alle feste ed alle persone; si commuove dinanzi alla caotica semplicità che si cela dietro ai pensieri ed alle idee degli artisti, autodefinendosi una nullità riguardo ai successi passati da cantante, si ritiene una popstar da quattro soldi; senza traccia di autocommiserazione, lo fa in preda alla disperazione come se tutto d’un tratto avesse bisogno di far sfociare all’esterno tutta la malinconia dalla quale è perseguitato. “Prima dell’inferno una sola parola ha definito la mia vita -spensieratezza –”. Resta sempre immune, disinteressato, più allo story board dei fatti che gli vengono raccontati, reagisce a questo sfoderando perle ironiche d’inestimabile valore.

Cheyenne vede morire il padre senza poterlo salutare, dopo non avergli parlato per trenta anni decide di ritrovarlo leggendo il suo diario scoprendo così che, quando lui era assente in tour, il padre ebreo, ha cercato in lungo ed in largo un criminale nazista. “La solitudine è teatro del risentimento”. Poi si imbatte in un cacciatore di questi suddetti criminali, amico del padre quando era in vita. Decide di dare un senso a quella ricerca vana continuandola lui stesso, più precisamente lui stesso insieme al proprio trolley dal quale non si separa mai. Qui inizia l’incontro con tante vite parallele, comincia sempre più a prendere coscienza di se stesso e di ciò che lo circonda; prende coscienza di quanto gli manchi un figlio che non ci può più essere nella sua vita.

“Non lo so spiegare il motivo per cui non ho parlato con mio padre per trenta anni, pensavo che alla base ci fosse una mancanza di stima reciproca. Quando avevo quindici anni ho stabilito che non mi voleva bene perchè mi truccavo gli occhi esattamente come me li trucco oggi e quando si è ragazzi non si ha mai voglia di tornare sulle proprie decisioni. Per troppi anni ho fatto finta di essere un ragazzo; soltanto ora ho capito che un padre non può fare a meno di amare suo figlio, sono stato fottuto nel fatto di non aver avuto figli ed ora che l’ho capito è troppo tardi”. Tardi è tardi. Nessuna discussione.

Il viaggio procede con una voce narrante fuori campo che recita le pagine scritte del diario, quelle che legge Cheyenne durante gli spostamenti. Con queste parole così ricercate e splendide lui pian piano si trasforma, come se non stesse più cercando un vecchio soldato nazista che umiliò il padre, ma bensì come se stesse trovando se stesso: sta esattamente facendo quello che ha sempre rinviato in gioventù quando era fuori controllo e pieno di tentazioni d’ogni sorta che lo hanno costretto a restare ragazzo, come se inconsciamente grazie al diario, stesse recuperando il tempo perso col genitore.

Raggiunto ed aiutato dall’amico del padre, riesce a trovare il nazista. Con un bellissimo colpo di scena (che non sveleremo!) avviene la sorpresa più bella ed inaspettata, la magia che dopo aver fatto il suo corso arriva al culmine. Cheyenne torna nel suo paese da uomo, senza più il viso truccato, senza bugie ed inganni che comportano l’infantilismo, senza più l’ombra di quel fantasma con cui da sempre ha fatto i conti. Torna a casa una persona nuova che ha finalmente deposto le ingenuità e lo fa ritornando in aereo.

Paolo Sorrentino vuole lasciare (o far risvegliare) dentro di noi un po’ di questo personaggio affinché diventiamo umani migliori, ricercando la semplicità nelle persone e non più nelle cose. Ci vuole più bambini, forse è per questo che con This must be the place ci coccola, ci mette su una giostra in cui prevalgono i sentimenti autentici, la tranquillità trascinante, mai scadente nel noioso e lo fa grazie anche alla colonna sonora. Ci racconta che le cose belle esistono veramente e la felicità è un niente così effimero da essere giusto uno stato mentale piuttosto che un obiettivo comune. La vicenda si regge tutto sull’interpretazione magistrale di Sean Penn, che rende credibile anche un clown tragico come Cheyenne; un film ironico e surreale, ma che fa riflettere sulla vita e lascia un segno.

“Poi durante l’inferno, anche noi, dall’altra parte del filo spinato, guardavamo la neve, e guardavamo Dio. Dio è così: una forma infinita che stordisce, bella, pigra e ferma che non ha voglia di far nulla, come certe donne che da ragazzi abbiamo solo sognato”.

Recensione This must be the place